Donato Di Santo

Tra Italia e America Latina

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Funzionario di partito
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1989: UN'OFFERTA CHE NON SI PUO' RIFIUTARE
Il lavoro politico quotidiano si articolava in riunioni nelle sezioni - una sessantina su novanta comuni, da Colico a Casatenovo, dalla Valsassina a Merate a Calolziocorte - sulle scelte politiche da fare nei municipi (sia quelli che amministravamo, pochi, che dove eravamo opposizione, tutti gli altri), sulle campagne elettorali, sulla "conquista” dell’Ente Provincia per Lecco (ancora non so se esserne orgoglioso o meno). Tante le iniziative pubbliche, le polemiche con il PSI di Polverari e con la DC di Golfari, le riunioni a Milano, al Comitato regionale diretto da Cervetti, e a Roma (Bottegone o Frattocchie), le riunioni della "componente”, le feste de l’Unità (dove sempre cercavo di inserire qualche iniziativa sui temi dell’America latina) … E, quando possibile, mi cimentavo con la scrittura. Ad esempio nell’88, scrissi un pezzo sul Nicaragua per l’Esagono , mensile del territorio brianzolo fondato e diretto da Roberto Isella.
Nel 1986, dopo i primi tre anni di mandato, venni rieletto segretario provinciale per altri tre anni. E nel 1989 scadeva il secondo ed ultimo mandato. Non interessato, per ragioni politiche, ad un passaggio "fisiologico” al Comitato regionale, avevo accolto l’offerta dei miei amici di entrare a lavorare nella cooperativa Eco ’86 (oppure sarei tornato in fabbrica).
Poco prima del Congresso della Federazione di Lecco ricevetti una telefonata di Fassino (che nel frattempo era sbarcato a Roma, giovane membro della Segreteria nazionale del PCI, con la prospettiva di dirigere la politica estera, allora guidata da Napolitano nel "Governo-ombra”, e da Rubbi al partito): mi chiese di andare a Roma perché mi doveva parlare.
Ci incontrammo nel suo ufficio a Botteghe Oscure e, con mia enorme meraviglia, mista a sconcerto, mi offrì di andare a Roma, alla Direzione nazionale del PCI , alla leggendaria Sezione Esteri, per occuparmi di relazioni con l’America latina. Ero stordito, non credevo alle mie orecchie.
Da quando era stato a Lecco, anni prima, mi aveva evidentemente "tenuto d’occhio”, ricordandosi la mia passione politica per l’America latina.
D’istinto reagii dicendo che ero lusingato, che lo ringraziavo tanto, ma che non potevo accettare: ero sì un appassionato, ma non certamente un esperto di quel continente, non avevo formazione accademica, non conoscevo le lingue,… in poche parole: ero solo un operaio. Lui si accalorò, quasi si arrabbiò, ribattendomi che la base indispensabile era il forte interesse per un tema e la volontà di lavoro (abbondavano entrambi): le lingue s’imparano, e la formazione accademica non era fondamentale perché la vera, ineludibile condizione richiesta era essere dei dirigenti politici, saper affrontare le situazioni ed i problemi, e saperlo fare in termini politici, non accademici né burocratici, e con forte senso di responsabilità.
Mi disse che dovevo togliermi dalla testa certe sovrastrutture tardo-leniniste di chi pensa che nel partito ci debbano essere tutte le competenze, e aggiunse: le competenze vere devono stare nelle Università e nei centri studi, ed il partito deve saperle cercare e recepire, ma dentro il partito debbono starci i dirigenti politici, che hanno competenze che gli accademici non hanno! …
Mi convinse. Accettai. Immediatamente dopo il Congresso della Federazione di Lecco mi trasferii a Roma.
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